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Anno: VIII: 2012/2013
Numero: 36
del 23-03-2013
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La Posta Del Lettore
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Caro Padre Nando, ho un dubbio che mi ha spinto a scriverti. Come è possibile che Dio, che dovrebbe essere buono, permette che le persone, e molto spesso quelle più buone e giuste, soffrano o siano svantaggiate rispetto agli altri nella loro vita?  Io proprio non capisco …

La domanda mi è molto cara in quanto, oltre a toccare profondamente il mio spirito è condivisa da molti fratelli ed anche non credenti: sarebbe interessante coglierne l’eco nel vasto ed affascinante mondo della letteratura ma vorrei soffermarmi sulla sua insistenza nella Sacra Scrittura. L’interrogativo: si Deus, unde malum? (se c’è Dio, perché il male?) risuona sovente nel cuore dell’uomo biblico ed assume toni drammatici di fronte alla percezione di un dilagare della sofferenza che investe i giusti e spesso risparmia i peccatori, con un apparente paradosso che sembra veder minata la fiducia nella giustizia stessa di Dio.
Il libro della Sacra Scrittura che tratteggia in modo davvero profondo questo tema è Giobbe: la narrazione di un uomo giusto che viene improvvisamente visitato da numerose sciagure, ultima una infermità ripugnante, diventa il pretesto per intentare un processo a Dio. Dio (l’imputato) è chiamato a rispondere alla domanda posta dal nostro lettore; Giobbe è l’accusatore ed intervengono dei testimoni che cercano di “difendere” Dio. Giobbe non scioglie l’enigma ma proietta il credente ad un rinnovato rapporto con Dio che, essendo Trascendente, rimane mistero da adorare: Giobbe si pone la mano sulla bocca e comprende che la sua pretesa è troppo ardita perché vorrebbe scandagliare l’insondabile profondità di Dio.
La domanda di Giobbe non rimane però inascoltata: l’approfondimento della Rivelazione, nel contatto con le persecuzioni dell’epoca dei Maccabei, che vedono soffrire e morire atrocemente degli ebrei innocenti e “colpevoli” solo della loro fedeltà alla Legge, troverà nella vita eterna ed immortale la luce che dirada le tenebre del dolore. Soffrire ha un senso che non va ricercato nella storia passeggera ma va colto nel premio eterno, di fronte al quale soffrire per amore di Dio ha valore grandissimo. Questa risposta però appare insufficiente: resta il tormento di conciliare un Dio amorevole e paterno con la sofferenza della creatura. Dio non scioglie totalmente questo enigma ma nella Croce del Suo Figlio si rivela come il Compassionevole, cioè come Colui che soffre con noi: non ha tolto, diceva Paul Claudel, la croce, ma vi si è adagiato. Guardare a Cristo, morto e risorto, contemplarlo con gli occhi puri della fede significa capire che nel soffrire non siamo soli ma che Dio soffre con noi e significa anche percepire che il dolore, che appare come contraddizione o sconfitta di Dio, acquista, alla luce della Risurrezione, della vita che non ha fine, un grande valore. Proprio per questo la grande mistica Beata Elisabetta della Trinità affermava che, se i Santi del Cielo potessero invidiarci, ci invidierebbero la sofferenza.
Vorrei concludere con il riferimento al celebre romanzo del nostro amato conterraneo Mario Pomilio: il Natale del 1833. L’autore, trasportando la nostra domanda sullo scenario del dolore di Manzoni per la morte della Blondel, conclude l’itinerario del “suo” Manzoni con una luminosa consapevolezza: il dolore dell’uomo è il dolore di Dio e il dolore di Dio è il dolore dell’uomo.


Padre Nando Simonetti

20-10-2010

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